DALLA CHIESA: 'SAGUNTO' 28 ANNI DOPO E QUEI MISTERI ECCELLENTI
(AGI) - Palermo, 3 set. - Quel venerdi' sera di 28 anni fa, alle 21.15 del 3 settembre 1982, vicino a piazza Politeama, nel cuore di Palermo, un commando affianco' l'A112 condotta da Emanuela Setti Carraro, 32 anni, seconda moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Seguiva l'auto di scorta, un'Alfetta non blindata, condotta dall'agente Domenico Russo. Tutti trucidati sotto una tempesta di colpi di un kalashnikov gia' utilizzato per altri eccidi e imbracciato da Antonino Madonia a bordo della Bmw 518 con calogero Ganci. Sembrava avesse vinto l'anti-Stato, una sensazione opprimente, cui diedero voce le parole trovate la mattina dopo in via Isidoro Carini: "Qui e' morta la speranza dei palermitani onesti". Pochi giorni dopo, il 5 settembre, durante i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo rompe il silenzio della Chiesa ufficiale sul problema mafia. Ha parole durissime, citando un famoso passo di Tito Livio: "Dum Romae consulitur... Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la citta' di Sagunto viene espugnata - tuona dal pulpito - e questa volta non e' Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra". I mandanti e alcuni esecutori sono stati condannati all'ergastolo. Ma, come disse una volta l'attuale procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, "per gli omicidi eccellenti bisogna pensare a mandanti eccellenti". La loro ricerca non ha fatto, pero', alcun passo avanti e, ventotto anni dopo, l'unica verita' giudiziaria e' compendiata nelle sentenze di condanna per due sicari e per i vertici della cupola tra cui Toto' Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calo'. Ma restano molte zone oscure che i giudici di Palermo sottolineano: "Si puo', senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalita' con le quali il generale e' stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacita' del generale". Parole della sentenza con la quale nel 2002 la corte d'assise ha condannato all'ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, e a 14 anni i 'pentiti' Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella sua requisitoria il Pm Nico Gozzo parlo' di "un delitto maturato in un clima di solitudine: Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l'espressione di una effettiva e corale volonta' dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso". Inevitabili, secondo il magistrato, gli effetti di questo 'abbandono': "Cosa Nostra ritenne di poterlo colpire impunemente perche' impersonava soltanto se' stesso e non gia', come avrebbe dovuto essere, l'autorita' dello Stato". Gli uomini della cupola erano gia' stati condannati nel maxiprocesso nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra e consolidato, nel suo impianto accusatorio, dal contributo di alcuni grandi pentiti come Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Francesco Marino Mannoia. Il 'superprefetto', nato a Saluzzo (Cuneo) il 27 settembre del 1920, ritorno' a Palermo, con procedura d'urgenza, dopo avere affrontato la malavita del nord, la mafia siciliana e le brigate rosse. Era la sera del 30 aprile del 1982, poco dopo l'uccisione del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, terzo uomo politico assassinato nel giro di qualche mese dopo Piersanti Mattarella, democristiano, presidente della Regione siciliana, e Michele Reina, segretario della Dc palermitana. Giunse in prefettura a bordo di un taxi e con l'intenzione di andare fino in fondo 'senza guardare in faccia a nessuno'. Durante i cento giorni che precedettero la strage di via Carini, il prefetto cerco' di promuovere la risposta dello Stato allo strapotere delle cosche e di spezzare il legame tra mafia e politica. Ma, come osservano i giudici palermitani, le sue iniziative suonavano come un 'chiaro campanello d'allarme per chi all'epoca traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nello specifico mondo degli appalti'. Le iniziative di Dalla Chiesa furono frenate da ostilita' politiche ambientali e da una ridotta capacita' di intervento. Il prefetto reclamo' continuamente la concessione di poteri di coordinamento che solo dopo la sua morte vennero formalizzati e concessi con la nomina di Emanuele De Francesco ad alto commissario. Confermando la denuncia che lo stesso Dalla Chiesa fece nell'ultima intervista a Giorgio Bocca: "Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo". .
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